Venerdi, 19 aprile 2024 - ORE:17:31

L’enigma del riciclaggio dei nostri inseparabili apparecchi elettronici

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Il convegno tenutosi il 2 ottobre presso la Camera dei deputati sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) è l’occasione per fare il punto sulla situazione italiana nello smaltimento e riutilizzo di tutti quei dispositivi che per funzionare necessitano di energia elettrica. Dove finiscono infatti il frullatore, la lavatrice, il frigorifero quando si decide di cambiarli?

Sarebbe un problema il non saper smaltire le circa 880mila tonnellate di rifiuti elettronici che l’Italia ogni anno produce. Ognuno di noi l’anno scorso ne ha prodotti 14,6 kg ma solo 5 seguono il corso ufficiale ossia il sistema virtuoso del ritiro, trasporto e trattamento.

I canali informali catalizzano il restante mercato, che non garantisce reporting e tracciabilità dei flussi. I cosiddetti free riders fanno sparire non meno di 300mila tonnellate di RAEE secondo le valutazioni di Remedia, uno dei consorzi per la gestione di tutte le categorie di rifiuti.

Ad esempio il processo di trattamento per gli apparecchi della categoria freddo ( frigoriferi, condizionatori…) dovrebbe tenere conto delle componenti pericolose come i CFC e HCFC contenuti nei circuiti refrigeranti, dei condensatori, degli olii e solo dopo una attenta rimozione delle criticità sarebbe possibile trattare il compressore per ricavarne parti re-introducibili nei cicli produttivi, senza parlare di parte dei materiali triturati che possono essere usati per produrre energia.

Il gap fra ciò che bisognerebbe fare e quello che invece si implementa è implicito già nel nome del convegno, “RAEE: minaccia ecologica o miniera urbana?”. Sì perché il problema dei rifiuti elettronici ha una storia piuttosto recente e stanno emergendo criticità, si comincia a conoscere le cifre di questo vero e proprio business che coinvolge molti attori, dai produttori di elettrodomestici ai gestori delle isole ecologiche, dai comuni all’Unione Europea.

Ed è proprio in ambito normativo che si rilevano delle problematiche, infatti sia per la legislazione europea che per quella italiana vale il principio della responsabilità estesa, per la quale si affida a coloro che producono apparecchiature elettriche ed elettroniche il riciclaggio delle stesse, da quando cioè i RAEE sono conferiti ai centri di raccolta fino alla loro trasformazione in materie prime secondarie. Ma se è vero che da una parte si sono formati dei veri e propri consorzi per la gestione di rifiuti elettrici, dall’altra esiste un “sottobosco” di aziende di riciclaggio e smaltimento che costituiscono un canale informale particolarmente pericoloso. È proprio così, i gestori dei centri di raccolta ( isole ecologiche) spesso, invece di consegnare i RAEE ai consorzi (o sistemi collettivi), li vendono in modo più o meno ufficiale ad altri soggetti (soprattutto quando il prezzo delle materie prime aumenta), qualcuno di questi “semplicemente” non mantiene alto il livello qualitativo dei trattamenti, mentre altri sono alla ricerca delle sole materie prime redditizie proprie degli apparati elettrici, come il rame, l’alluminio, il ferro e le plastiche, deviando in discariche abusive e non il resto, causando danni ambientali ed economici. I primi sono dovuti alla presenza di materiali ozono lesivi oppure al poliuretano, materiale molto comune ad esempio nei frigoriferi di vecchia generazione, i secondi invece sono rapportabili ai danni in termini di concorrenza sleale (non devono sostenere i costi derivanti da apparecchiature moderne e a norma) che si apporta alla filiera del riciclo “sano” che occupa migliaia di addetti.

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I sistemi collettivi hanno precise responsabilità, che vanno dal ritiro al trasporto al trattamento, e questa mole di lavoro sarà ulteriormente messa alla prova dalla prossima direttiva europea che dal 2014 costringerà i Paesi membri ad agire con maggiore concretezza in questo settore, portando la soglia base di raccolta del RAEE generato all’85%. Se il sistema normativo non avrà chiarito le criticità in modo organico non solo l’Italia non centrerà l’obiettivo comunitario ma il canale informale si moltiplicherà rendendo vani gli sforzi verso una maggiore sostenibilità.



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